Funambolo

Ho amato Praga dal primo istante.
La sua tenue afflizione mi appartiene come un tratto caratteriale. Ogni strada è linea nella mia mano, ogni edificio neo sulla pelle. La conosco come si arriva a conoscere se stessi, la vivo come si ama un amante che non si possiede mai completamente, con foga e rammarico. Ci vado per lavoro, mi fermo qualche giorno poi riparto con la sensazione, ogni volta, di allontanarmi da ciò che mi appartiene ma non posso non ripartire. Forse il mio desiderio si alimenta proprio perché debbo andare e poi non so starne lontano. Forse il mio destino è allontanarmi dalla felicità. Lo stupore del casuale incontro si attua un pomeriggio dentro un luogo dove mi reco spesso, punto d’incrocio tra verità e finzione -condizione a me congeniale- spazio dove sentire il fiato narrante delle tante storie contenute. Mani diverse afferrano lo stesso libro. Per un attimo le dita si toccano e a salire occhi si guardano. Lui è viso riemerso dal passato: contiene per intero il lessico di discorsi lasciati in sospeso, approcci intimi appena accennati, troppo acerbi i noi di allora per sostenerli. Nella mia istintiva attrazione nessuna logica e in lui nessuna clemenza verso quella debolezza mal celata che accoglie senza fare complimenti: “Stai con me, ti porto a mangiare!”. Forbici tagliano fili che mi legano al presente e, come barca sospinta dalla corrente, ora io veleggio a vista. Il cibo mangiato è condiviso con tutti i sensi, goduto. Tutto, escluso noi, è privo di contorni; noi che potremmo essere ovunque purché guardati così. Non ho peso pur percependo per intero il mio corpo. E sono energia. Energia originale, come il Peccato. Sono una donna amata ma tutto questo va ben al di là del ragionamento: è riconoscimento, giustificazione al mio essere viva: per questo sono nata, e se lui fosse donna io vorrei esser uomo.
Non appartengo a questa città ma quel che vedo dentro ai suoi occhi non solo mi somiglia, mi piace. E se in realtà io fossi quella che ora mi appare distorta? Se nel difetto risiedesse la veridicità? Distonia dell’abitudine. Svelamento del vero. Ed è così che la logica del desiderio si fa strada incarnata in un pensiero che cresce fino ad occupare la mente. Ambisco alla gioia, divorata dall’impulso di essere felice. Oltremodo felice. Cosa arriviamo a concepire pur di giustificare il nostro desiderio? Ogni cosa. Siamo capaci di accendere fuochi per interrompere il nero della nostra notte interiore. Fuochi di paglia che bruciano veloci e altrettanto rapidamente ci fanno ripiombare nelle paure. Ma in quel breve luminosissimo attimo tutto ci appare perfetto e irrinunciabile. Non abbiamo idea che ciò che vediamo sia solo illusione, non abbiamo consapevolezza dell’inganno; o forse sì, sappiamo che non durerà ma ci va bene lo stesso. E’ un fuoco che avvampa e dilaga e si estende e illumina e scalda anima e corpo e se poi dura il battito di un cuore non importa perché in quel breve pulsare c’è più vita che in tutta un’esistenza passata nella quiete. Questa caparbietà che sento è la protesta dell’io. E non voglio fare nulla per contrastarlo. Il mio corpo tra le sue mani si plasma; osservo sospesa i nostri corpi nudi legati insieme. Io sono materia fatta di appetito e soddisfazione. Amo l’altro, e con l’altro amo me. Senza pudore. Siamo bocche, siamo lingue, saliva e sospiri. Siamo liquidi mescolati, siamo carne e anime. Corpi. Due. Siamo Uno dentro la mia mente prima ancora che tra le mie gambe. Rimani ! dice. E nell’aria quella richiesta si cristallizza. Per quella promessa vacillo divorata dall’aspettativa di ciò che si potrebbe compiere. Ora il mio tempo è immobile, tutto è de-reale, perché non so in quale Tempo sono. Non è passato, non è futuro, e nemmeno presente perché se solo mi arresto a pensare tutto si sgretola e crolla.
Desidero proprio perché ne avverto la fine. Amo perché non è mio. Cado dentro alle parole che sono sempre e solo promesse ambite. Senza morirei e io voglio vivere. Dammi cibo nuovo, te ne prego. Questo dico mentre lui diviene la mia fame sfamata. E prima di lui non sapevo cosa volesse dire desiderare. Sto viaggiando. Il volo aereo non mi lascia priva di pena perché, nella durata, la valutazione dei fatti mi ha dato modo di pensare a quel letto sfatto che lascio ogni volta dietro me, alla sua figura in piedi contro la luce del mattino, al suo silenzio, alla sua mascella contratta con rabbia quando gli dico: Devo andare. Sto atterrando. Nel bagaglio a mano la mia colpa. Cerco, tra tanti volti ignoti, gli occhi familiari dell’uomo che amo. Lo abbraccio, mi ci aggrappo e vedo. Vedo quei corpi, bianchissimi, colti nell’atto d’amore, uniti come mani giunte in preghiera. Scelgo di negare l’evidenza, scelgo la sua dimenticanza mentre so che il mio nome può avere un suono mai udito prima. Un Battesimo di carne pronunciato da una bocca che si riempie del mio seno. E come petalo che da una rosa sfiorita cade, io invoco complice l’oblio. Dimenticherò fino alla prossima volta.
Com’è andato il viaggio?
Bene. Ti amo. Dico. Ed è vero. Io amo. Ogni volta che atterro. Vivo in equilibrio come un funambolo che attraversa il cielo tra una partenza e un arrivo, un uomo e l’altro, dove quel che sembra meta diventa, nel viaggio di ritorno, inizio di un’altra fine.

Giorgia Ferrari

Scrivi l'Amore - Premio Mario Berrino (edizione 2020)

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