La porta azzurra

Quel giorno, quando uscii da scuola guardai il cielo. Due colombi stavano volando e andarono a posarsi sul campanile della chiesa. Restarono qualche attimo poi spiccarono di nuovo il volo, finché non scomparvero. Avrei voluto essere uno di loro. Avevo freddo, tirai su il naso e passai la lingua sulle labbra per togliere gli ultimi residui di moccio, poi strofinai gli occhi con la manica per asciugare le lacrime.
Anche quel giorno avevo pianto, sommessamente, con dolore, nascondendomi, tenendo il viso sempre chino sul banco.
Avevo avuto difficoltà a ripetere quello che la maestra aveva spiegato. Non avevo rispettato la sequenza delle parole scritte alla lavagna. Le lettere sembravano essersi trasformate sul mio quaderno dopo averle copiate: m con n, b con d, a con e. La mia lettura era stata lenta e faticosa con voce frammentata ed esitante. Ero stato ridicolo. Per la prima volta avevo visto le mie mani tremare e sentito il cuore gonfio di disperazione.
Il desiderio d’imparare e di essere uguale agli altri bambini era smisurato ma non mi riusciva.
Le mie capacità di apprendimento erano difficoltose. Ero consapevole di ciò che non riuscivo a esprimere e quello che avrei voluto spiegare mi restava nella gola. Ero costantemente pervaso da una sensazione di inadeguatezza e di fallimento. I bambini come me venivano considerati “ritardati”, ma io ero soltanto un bambino dislessico e fino a quel momento nessuno lo aveva capito. Avevo sette anni, frequentavo la seconda elementare.
Il giorno dopo mi spostarono in un’altra classe. La maestra mi prese per mano e mi condusse davanti a una porta azzurra, bussò e una ragazza aprì. Era alta e piuttosto robusta, aveva occhi vivaci e una lunga treccia castana che le scendeva sulla sua schiena. Mi accolse con un sorriso radioso e tendendomi la mano mi disse: «Vieni, i tuoi compagni ti aspettano!». Era la maestra Armida.
In quel tempo, la scuola mi appariva come la pista di un grande circo, dove un bambino come me, ad ogni insuccesso, esibiva le sue orecchie d’asino che vibravano a ogni risata dei compagni. Il senso del ridicolo abitava ogni cellula del mio corpo, cercavo di non parlare e di nascondermi quando potevo. Mi sentivo perduto e cambiare classe non sarebbe servito a nulla.
Alla maestra Armida era stata assegnata una classe con bambini che avevano difficoltà di apprendimento e sembrava però esserne molto orgogliosa. Era convinta che i suoi studenti erano come gli altri o forse più intelligenti e che le capacità che essi esprimevano risultavano inferiori alla loro vivacità intellettiva. Per lei ogni bambino era uno scrigno misterioso che racchiudeva sorprendenti potenzialità, bastava scoprirle.
«Bambini, voi siete i migliori studenti che questa scuola possa avere, quindi dovete credere che potete fare meglio degli altri. Ripetete ogni giorno: Io sono bravo, sono qui per imparare e lo farò bene, sarò un grande studente e un grande uomo». Era certa che quelle parole pronunciate da noi con convinzione avrebbero aumentato la nostra autostima. Il suo viso acceso e i suoi occhi lucidi e pieni di amore non ti lasciavano dubitare.
Il suo metodo di insegnamento ci permetteva di imparare senza sentirci inadeguati. Sapeva che eravamo in grado di trovare le soluzioni ai problemi applicando un metodo a misura delle nostre capacità, cercava di farci credere nella nostra unicità di esseri umani. Stimolava la nostra intuizione, immaginazione e creatività. Presto, con lei tutto mi apparve più semplice e persino divertente.
I miei compagni erano come me e il senso del ridicolo mi stava man mano abbandonando. Mi sentivo come un uccello che volava nel cielo roteando muovendosi fluido all’unisono insieme a tutto lo stormo.
Un giorno la maestra ci disse: «Scrivete una parola che vi piace e poi la leggeremo insieme.»
Tutti scrissero parole diverse e anche divertenti. Io scrissi: Icaro.
«Icaro? Ma tu sai chi era Icaro?» mi chiese Armida.
«Sì, Icaro era un ragazzo che volava con le ali, io però voglio volare con l’aeroplano» dissi orgoglioso ed eccitato.
Ero affascinato dagli uccelli, dalla libertà che il volo mi ispirava. Stavo spesso con il naso all’insù a guardare il movimento delle loro ali, le traiettorie, i disegni nel cielo e nella mia fantasia di bambino mi vedevo volare insieme a loro. Queste fantasticherie calmavano, almeno per qualche istante, il mio profondo e radicato senso di inadeguatezza e di angoscia, ma con la maestra, finalmente ero riuscito a comunicare il mio pensiero, parlare del mio sogno senza la paura di essere giudicato. Mi sentivo capito, accolto, amato.
Nei giorni e negli anni che seguirono nella mia classe, tutti sembravamo aver trovato il nostro spazio e la nostra dimensione nel mondo della scuola. La maestra ci insegnò a “vedere mentalmente” ciò che dovevamo imparare e questo rendeva più facile l’apprendimento. Non mancarono comunque i giorni in cui tutto era più difficile, la mancata esecuzione dei compiti, la distrazione, l’irrequietezza, ma le difficoltà venivano spazzate via dall’intervento della maestra che sapeva come trovare le soluzioni ai problemi intervenendo con pazienza e leggerezza.
La maestra Armida insegnò nella nostra classe fino alla quinta elementare. Tutti superammo gli esami brillantemente, forse meglio di alcune classi così dette “normali”.
Il suo metodo d’insegnamento e le sue parole, come una zattera salvifica da un fiume impetuoso di incertezze e confusione, sono rimasti con me per tutto il percorso scolastico. Nei lunghi e difficili anni di studio che seguirono, il ricordo della sua figura, che si stagliava dentro di me come un gigante di empatia e di amore, mi aveva fatto capire che la mia “diversità” era un punto di forza. Mi aveva guidato dandomi consapevolezza e sorreggendomi fino a diventare quello che sono oggi.
Ora sono un pilota di linea che ha conquistato il suo primo grado. L’aereo è diventato il mio corpo, la mia casa. Sulle mie ali posso fendere l’aria e guardare lontano, nutrirmi di stupore, sperimentare il coraggio, vivere l’immensità e quella libertà che sin da bambino ho sempre desiderato al di sopra di ogni limitazione e di ogni giudizio terreno.
Se potessi, vorrei tornare in quella classe, tra i banchi scorticati, la lavagna di ardesia piena di “bizzarre” parole da copiare, il profumo del gesso e di matite temperate e trovare la maestra Armida, che ci accoglie ogni mattina con le braccia aperte piene d’amore. Vorrei abbracciarla, prenderla per mano e con un sorriso radioso dirle: «Vieni il mio aeroplano ti aspetta!».

Marinella Miconi

Scrivi l'Amore - Premio Mario Berrino (Edizione 2023)

La porta azzurra